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Un altro passaggio fondamentale è rappresentato dalla migrazione alla “sanità dell’adulto”; infatti anche se è pur vero che il bambino disabile può restare in carico al pediatra oltre i 14 anni, cosa che non avviene per tutti gli altri bambini, a 18 anni deve necessariamente passare al medico di medicina generale. Lo stesso avviene per i disabili molto gravi residenti nelle strutture: al compimento della maggior età devono essere dimessi o verso residenze per adulti, o al domicilio dove in realtà non hanno praticamente mai vissuto.
La Transizione richiede un passaggio di consegne ben pianificato tra Pediatra e MMG, oppure tra struttura che dimette e quella che accoglie, nello stesso tempo cambiano le esigenze e le aspettative del paziente e della sua famiglia sia sul piano clinico che su quello relazionale.
In questo importante processo le famiglie dovrebbero essere aiutate dai professionisti del settore socio-sanitario e delle agenzie educative perché hanno bisogno di essere sostenute e guidate nel promuovere l’autonomia, l’inclusione sociale e, quando possibile, anche la produttività. Spesso invece si è di fronte a Servizi rigidi nel loro mandato che con molta difficoltà modellano il loro lavoro sul reale bisogno di quel disabile e della sua famiglia.
Un altro ostacolo che rende poco fluida la Transizione è rappresentato dalle diverse culture di riferimento e le metodologie di intervento, che variano da regione a regione e a volte anche da provincia a provincia, Presidio sanitario e singolo professionista. Destabilizzante per la famiglia è il passaggio dal modello pediatrico centrato sulla famiglia, sulla crescita e sullo sviluppo, poco attento all’autonomia e all’autodeterminazione, a quello dell’adulto centrato sul paziente e molto meno supportivo. I trattamenti riabilitativi estensivi che si offrono al bambino, vengono interrotti con il passaggio all’età adulta, quando si propongono prese in carico cicliche e brevi, perlopiù legate ad eventi acuti e non come un continuum come avveniva in epoca pediatrica.
Oggi pianificare un processo di Transizione presenta ancora molte criticità legate a diversi fattori:
- assenza di linee guida, per cui fuori dal servizio di NPI che ha tutta una rete di professionisti collegati non si trova la stessa trama di operatori che condividono obiettivi e piano socio sanitario.
- Riduzione della “tolleranza ambientale”, nel senso che se il bambino disabile che piange genera tenerezza, l’adulto, seppur disabile, che urla o corre all’improvviso, spaventa e produce evitamento.
- Pochi i servizi specifici dedicati, anche se in qualche regione esistono, all’interno di alcuni ospedali, degli ambulatori destinati al disabile che prendono il nome di D.A.M.A. (Disabled Advanced Medical Assistance: un modello di accoglienza ospedaliera inclusiva rivolto a pazienti con gravi disabilità intellettive, comunicative e neuromotorie che adatta il percorso ospedaliero alle loro specifiche esigenze).
- Un’altra spinosità è rappresentata dalla difficoltà di trasferire le conoscenze: non c’è la presunzione di insegnare ai colleghi, ma comunicare quelli che sono stati passaggi difficoltosi o addirittura senza risultato, aiuta a non ripetere l’errore e a non perdere tempo, cosa però che viene spesso vissuta come un sapere di cui non si ha bisogno.
- Un ultimo elemento da ricordare è la differenza dei criteri diagnostici: se da un punto di vista medico legale il soggetto è a tutti gli affetti un adulto e quindi si deve far riferimento alle linee guida dell’adulto, in realtà molto spesso siamo di fronte a persone iposomiche con strutture fisiche molto al di sotto dei 40 kg e quindi a quali parametri far riferimento?
È evidente che in uno scenario come quello descritto, la famiglia poco supportata tende a perseverare nella resistenza al cambiamento e alla crescita reale del figlio, mantenendo atteggiamenti disfunzionali. Quando i Servizi non trasmettono né sicurezza né coesione negli intenti, la famiglia e soprattutto il caregiver principale, si sentono autorizzati a continuare ad essere il soggetto gestore del figlio e molto spesso ci si sente dire: “io sono la mamma e lo conosco meglio di tutti voi”, generando interferenze non sempre facili da gestire.
Gli atteggiamenti più spesso presentati sono:
- Tendenza all’iperprotezione.
- Scarso desiderio di promuovere l’autonomia del figlio.
- Assenza di programmazione e pianificazione, con allerta e agito solo in caso di urgenza.
- Difficoltà ad affrontare ed elaborare le pulsioni affettive e sessuali del proprio “bambino”.
- Resistenza alla dimissione dai servizi riabilitativi, perché questo fatto mette di fronte all’esame di realtà e cioè che tutta una serie di funzioni quel figlio non sarà mai in grado di acquisirle.
- Difficoltà concrete e reali ad affrontare la burocrazia, anche “semplicemente” per avere le prescrizioni degli ausili di cui hanno diritto.
In conclusione, si può affermare che il tema della Transizione necessita di un cambiamento culturale per attivare strategie di intervento che permettano di sanare il divario ad oggi esistente tra le aspettative delle famiglie e le reali possibilità dei Servizi. Secondo la Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza bisognerebbe agire in tre ambiti:
- Formazione
- Assistenza
- Transizione intesa come modalità programmate di passaggio assistito tra servizi di cura pediatrici e servizi che si occupano dell’adulto.