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Disabilità intellettiva e comportamento problema
La capacità o meno di esprimere i propri bisogni e la mancanza di un linguaggio strutturato e comunicativo nel paziente con PC può portare a un comportamento problematico.
Nella paralisi cerebrale (PC) è sempre presente una disabilità intellettiva, intesa come un deficit del funzionamento sia intellettivo che adattativo negli ambiti concettuali, sociali e pratici.
Il funzionamento intellettivo si riferisce alle capacità mentali generali, come il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dell’esperienza.
Il funzionamento adattativo fa riferimento all’efficacia con cui i soggetti fanno fronte alle esigenze più comuni della vita quotidiana e alla capacità di adeguamento agli standard delle autonomie personali previste per fascia di età, contesto ambientale e livello socioculturale.
I livelli di disabilità intellettiva sono 4 (lieve, moderato, grave ed estremo) e corrispondono a stati sempre più gravi di dipendenza dal caregiver, inoltre, più grave è il deficit intellettivo e minore sarà la capacità del soggetto di esprimere i suoi bisogni.
A seconda del grado della disabilità intellettiva presentata, quando il bambino presenta competenze limitate, può manifestarsi quello che oggi viene indicato come un COMPORTAMENTO PROBLEMA.
Dott.ssa Alessia Cavallaro
Medico psicoterapeuta - RSD Pogliani di Varese

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Indice
- Il comportamento problematico
- Le condotte problematiche
- Il passaggio da ‘integrazione’ a ’inclusione’
- I disturbi del comportamento
- I sintomi secondari ad altri disturbi
- Le reazioni momentanee
- L’analisi funzionale per gestire i comportamenti problematici
- Conclusioni
- Bibliografia
Il ‘comportamento problema’
Tutti noi siamo costituiti da un sistema mente-corpo imprescindibili, la cui non integrazione può generare un disagio che si può evidenziare sia a livello psichico che fisico e viceversa. La possibilità di mettersi in relazione con l’altro e/o la capacità di esprimere i propri bisogni, dipende dal grado della disabilità intellettiva presentata e dalla possibilità di aver sviluppato un linguaggio strutturato e comunicativo, quindi quando il bambino presenta competenze limitate, può manifestarsi quello che oggi viene indicato come un COMPORTAMENTO PROBLEMA.
Quando un comportamento diventa un problema?
Possiamo evidenziare tre diverse situazioni:
- comportamenti che implicano l’adattamento
- comportamenti che chiamano in causa l’apparato delle regole
- comportamenti che influiscono sullo stato di benessere del soggetto e di chi gli sta attorno.
Le condotte problematiche
Il bambino con una disabilità intellettiva può vivere l’ambiente di vita come inadatto alle sue caratteristiche e mettere in atto condotte come: l’ecolalia, i rumori ripetuti con oggetti o con la bocca, le stereotipie, l’irrequietezza motoria, che a loro volta, all’interno per esempio di un contesto come quello della classe, possono creare disturbo e generare senso di fastidio, allontanamento e rifiuto da parte dei pari.
In tutti i contesti di vita esistono regole, formali e non, che i bambini imparano sin dal nido o comunque dalla scuola dell’infanzia, ma se presente un deficit intellettivo, il piccolo può, più o meno consapevolmente, presentare un atteggiamento oppositivo e sfidante nei confronti dell’adulto. Spesso durante il gioco, in seguito alla sua scarsa inibizione comportamentale, soprattutto se a causa anche di limitazioni motorie non riesce a primeggiare, infrange le regole e può rompere gli oggetti a disposizione o diventare pantoclastico nei confronti dell’ambiente circostante.
Da ultimo ricordiamo gli agiti aggressivi auto o etero diretti e gli atti pericolosi per sé e gli altri (come per esempio la pica, cioè l’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare e non commestibili), che più dei precedenti mettono a rischio il gruppo classe e possono far insorgere comportamenti rifiutanti e di evitamento che pregiudicano l’attività di inclusione che si sta perseguendo negli ultimi anni.
Il passaggio da ‘integrazione’ a ’inclusione’
In questo momento storico stiamo vivendo un passaggio epocale perché si sta transitando dalla fase dell’integrazione a quella dell’inclusione, evoluzione veramente importante, che richiede però un substrato formato e ricettivo.
Nell’integrazione l’insegnante, dopo aver ben valutato le capacità e i limiti dell’alunno, deve individuare strategie educative e didattiche adeguate a quel bambino e stabilire gli adattamenti più funzionali a lui. Nell’inclusione invece si programmano interventi flessibili e articolati per poter dare risposta alle esigenze di alunni diversi con profili di funzionamento diversificati e stili cognitivi differenti. Si ha cioè un ribaltamento del vertice osservativo, perché si passa dal guardare prima l’alunno particolare e quindi alla programmazione per lui, alla programmazione plurale e flessibile per alunni con stili cognitivi e profili di funzionamento tutti diversi: nell’integrazione si passa dall’alunno alla programmazione, mentre nell’inclusione si va dalla programmazione agli alunni.
Questo cambiamento di prospettiva deve essere applicato anche al trattamento del comportamento problema, passando da un approccio reattivo ad uno proattivo: non dobbiamo aspettare che il comportamento problema si presenti per affrontarlo (comportamento problema > strategie di gestione e contenimento), ma dobbiamo organizzare l’ambiente e la rete di relazioni in modo tale da prevenire o comunque limitare la comparsa degli atteggiamenti sfidanti e problematici (organizzazione del contesto e delle relazioni > prevenzione e riduzione del comportamento problema). Pensiamo infatti quanto sia più tollerabile per tutti una semplice ecolalia che si presenta per qualche minuto una sola volta in un’ora la settimana, piuttosto che tutti i giorni a tutte le ore, e quanto questo sia ancora più rilevante con comportamenti problema maggiori. Ricordiamoci poi che nella disabilità intellettiva, la manifestazione della condotta problematica avviene quasi sempre in condizioni di ridotta intenzionalità e consapevolezza.
Ma quali sono i comportamenti problema?
Semplificando li possiamo suddividere in tre categorie: disturbi del comportamento, sintomi secondari ad altri disturbi, reazioni momentanee.
I disturbi del comportamento
I disturbi del comportamento sono rappresentati dalle condotte aggressive e/o dalla violazione delle regole, hanno in genere una base neurobiologica, e in essi giocano un ruolo fondamentale anche i fattori ambientali ed educativi.
In questi casi è compromessa l’inibizione, la flessibilità e la pianificazione; sono spesso oggetto di provvedimenti disciplinari che impattano negativamente sia sull’apprendimento che sul senso di Sè.
I sintomi secondari ad altri disturbi
I sintomi secondari ad altri disturbi sono condizioni nelle quali il comportamento problema è il modo in cui il soggetto ci sta dicendo che c’è, per esempio, un problema clinico: un mal di pancia in un soggetto averbale può essere segnalato con una reazione pantoclastica, perché la sofferenza soggettivamente percepita diventa fonte di frustrazione rilevante e la difficoltà di adattamento induce un’evacuazione immediata con la via più semplice.
Le reazioni momentanee
Le reazioni momentanee sono comportamenti diversi che si manifestano o come singoli atti aggressivi (pugni, calci, tirare i capelli) o come reazioni emotive impulsive (buttarsi a terra, urlare), fino ad atti più o meno autolesivi.
Sono la risposta ad emozioni eccessive e incontrollate quali la rabbia o la paura; oppure possono essere il corrispettivo della frustrazione generata da una richiesta eccessiva e al di là delle capacità del bambino/ragazzo (secondo la teoria di Donald e Miller sul rapporto tra frustrazione e aggressività: gli stati di frustrazione generati dal soggetto determinano una condizione di tensione interna, superata una soglia critica si manifesta la condotta aggressiva come modalità di espressione e scarica di quella tensione).
Se queste condotte nel periodo che va dall’infanzia alla preadolescenza possono essere considerate fisiologiche perché le aree prefrontali sono ancora in fase di sviluppo, dopo queste età non lo sono più, ma nel bambino con disabilità intellettiva il raggiungimento di alcune tappe evolutive avverrà con ritardo o potrebbe anche non arrivare mai.
Come fare dunque per identificare un comportamento problema? E come gestirlo?
L’analisi funzionale per gestire i comportamenti problematici
La letteratura scientifica oggi ci suggerisce di utilizzare L’ANALISI FUNZIONALE.
Si tratta di uno strumento che serve a descrivere gli eventi in modo che si possano misurare obiettivamente, perché solo se conosciamo dettagliatamente il comportamento possiamo programmare un intervento efficace per modificarlo e soprattutto per prevenirlo. L’evento in sé, infatti, è il risultato di un qualcosa che ha alterato lo stato di quiete del soggetto e che quindi ha risposto al turbamento con un agito.
Nel soggetto con disabilità intellettiva l’apparato per pensare e per inibire gli impulsi è deficitario e quindi si passa subito ‘Acting out’. Prevedere i tempi in cui un comportamento si manifesta, in quali circostanze, con quali persone, può essere di grande aiuto sia al soggetto che mette in atto il comportamento, sia ai pari che gli stanno attorno. Lo scopo non è solo quello di descrivere il comportamento per eliminarlo, ma capirne il significato e la funzione, perché dietro di esso ci possono essere diversi motivi:
- richiesta di attenzione o di oggetti
- fuga da un compito o da una situazione non gradita
- ricerca di stimolazione sensoriale
- ricerca di sollievo da dolore fisico o emotivo.
Una cosa a cui prestare molta attenzione è quella di EVITARE IPOTESI PREDEFINITE. Di solito, le persone presentano uno schema ricorrente di comportamenti che utilizzano in una data situazione e i comportamenti problema sono la strategia migliore per raggiungere i loro scopi.
L’analisi funzionale ci dirà se il comportamento ha base organica oppure no e una volta stabilito di che cosa si tratta si andrà a definire lo scopo, le situazioni in cui si manifesta, la funzione, gli stimoli ambientali che lo perseverano e l’eventuale intervento educativo. Per fare tutto questo si utilizza uno schema predefinito, che dovrà essere compilato dall’operatore sanitario ogni volta che il comportamento, identificato come quello da analizzare, si manifesterà. Esso contiene delle voci e degli item che devono essere compilati seguendo delle indicazioni ben precise:
- non generalizzare (per esempio: non dire Erika è aggressiva, ma Erika ha dato un morso)
- devono comparire gli antecedenti del fatto, il comportamento e che cosa è successo dopo
- chi era presente e il luogo dove è avvenuto.
Il comportamento deve essere osservato più volte per poterne dare un’interpretazione e una lettura il più possibile vicino al suo reale significato. Stabilito lo scopo del comportamento, si deve pensare all’intervento da attuare perché punire o vietare una determinata condotta non è sempre utile, anzi in alcuni casi può addirittura peggiorare il quadro. Si devono invece modificare gli antecedenti e/o le conseguenze e/o fornire strategie alternative di comportamento affinché la persona raggiunga il suo scopo (se Erika morde tutte le volte che il menù prevede il pesce, tranne quando è impannato, è evidente che a Erika non piace il pesce e il morso a chi le porta il piatto è il modo che lei ha per dire NON ME LO DARE).
Conclusioni
La disabilità intellettiva è dunque una realtà clinica molto diversificata che presenta un pattern di funzionamento psichico e fisico molto complesso; in questo quadro si inserisce anche il comportamento problema, un modo che il soggetto non verbale o con scarse capacità comunicative usa per parlare di sé, del suo stato fisico o psichico e lo strumento all’oggi individuato per comprendere cosa ci sta dicendo attraverso l’agito è l’ANALISI FUNZIONALE, uno strumento che può essere ritenuto un passo nella programmazione e nell’implementazione di un intervento, perché ci aiuta a considerare la persona nel suo intero, con le sue abilità, bisogni, desideri.
Bibliografia
- American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: Dsm-5. Whashington: APA
- Bertacchi I., Giuli C. & Cipriani I. (2019). Coping Power nella scuola secondaria. Gestire le problematiche relazionali e promuovere comportamento prosociali in classe. Trento: Erickson.
- Celi F. & Fontana D. (2005). Psicopatologia dello sviluppo. Storie di bambini e psicoterapia. Milano: McGRaw-Hill
- Cottini L. (2017). Didattica speciale e inclusione scolastica. Roma: Carocci
- Fedeli D. & Tamburi D. (2005). Mi insegni a giocare? Strategie per insegnare abilità ludico-ricreative a bambini disabili. Brescia: Vannini.
- Fedeli D. (2020). La gestione dei comportamenti-problema. Dall’analisi all’intervento psicoeducativo. Roma: Anicia