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Lo scambio vitale di emozioni collegate con il cibo non riguarda solo il bambino ma ha anche un altro significato, soprattutto per la madre, e cioè quello di ripresentare il suo essere stata bambina e tutto ciò che di esperienziale c’è stato in lei attraverso il cibo e l’essere nutrita.
Quello che mangiamo ci ricorda e riporta alla prima relazione affettiva importante e ci rimanda, simbolicamente, alla qualità di quell’amore: il modo in cui viene pensato, il tipo di ingredienti utilizzati, l’attenzione e il tempo nel cucinare, l’intenzione presente nel momento in cui lo si mette nel piatto fanno la differenza e diventano, essi stessi, qualità, “sapore” e nutrimento che si aggiunge ai nutrienti “tradizionalmente” intesi. Il cibo è anche famiglia, ritualità, emozioni condivise e situazioni, cultura.
Da tutto questo si capisce che il passaggio alla nutrizione artificiale (NA), cioè non poter nutrire in senso tradizionale, rappresenta una profonda ferita che potrà guarire con molta difficoltà e che avrà bisogno di cure importanti e continuative; non solo, venendo meno quel bisogno primario in cui la madre è contemporaneamente sia nutrice che nutrita, qualsiasi altra forma di alimentazione che sia un surrogato, verrà attaccato e sarà vissuto come qualcosa di assolutamente intrusivo e innaturale, in una diade madre/bambino già pesantemente messa alla prova dalla presenza della PCI.
Da tutto ciò si evince che, mentre per il clinico posizionare la PEG è un “traguardo”, per la famiglia e il bambino rappresenta un nuovo inizio che influenza uno degli ambiti più importanti del rapporto madre/figlio.
Diventa dunque fondamentale offrire alla famiglia un supporto continuativo in grado di far fronte a tutte le necessità che dovessero via via presentarsi e mentre nella prima fase deve prevalere l’assistenza clinica, nella seconda deve esserci uno scivolamento verso gli aspetti più psicologici.
Nei giorni e nelle settimane immediatamente successive al posizionamento del device, deve essere garantita la possibilità di essere ricevuti e ascoltati in merito a tutte le eventuali difficoltà di tipo gestionale e/o complicazioni che dovessero presentarsi: tutti i servizi di gastroenterologia pediatrica o dell’adulto alla dimissione consegnano uno scritto sulle buone prassi e sulle procedure da seguire per alimentare il bambino, per gestire la PEG, che sono sempre molto chiare e dettagliate, ma quello che succede una volta a casa è che ci si deve mettere a confronto con un’attività percepita non più come un nutrire, ma come una fredda manovra ospedaliera.
Per poter metabolizzare quest’aspetto, è basilare che tutta la parte medica proceda senza intoppi e qualora si presentassero dei problemi, l’equipe clinica deve prendersi cura di ciò che sta succedendo, perché il vissuto che subito si fa strada è che il bambino stia soffrendo e che quindi non solo non possa più nutrirsi come la natura vorrebbe, ma che addirittura possa avere dolore, minando ancora di più il rapporto di fiducia e l’accettazione del device, a causa dei sensi di colpa della mamma.
È quindi necessario individuare per ogni famiglia un professionista che si faccia carico di seguire tutto il percorso e che qualora ce ne fosse bisogno, attivasse tutto ciò che serve per trattare il problema presentato. Vanno ben dichiarati gli obiettivi e la media dei tempi in cui andranno raggiunti, facendo presente che al di là di questi, ogni bambino è diverso e potrebbe anche presentare tempi diversi.
Definire in anticipo ciò che ci si attende permette ai genitori di avere degli indici di risultato su cui contare e in qualche modo consolidare il loro pensiero magari ancora insicuro. Nello stesso tempo la gestione immediata di eventuali complicanze contiene la paura e mostra che anche di fronte alla difficoltà non si è lasciati soli.
Il successo della “fase organica” è il prerequisito per avviare la seconda parte, cioè quella psicologica, nella quale bisogna consolidare la relazione di fiducia e traslare dal senso comune del nutrire ad un nuovo significato.
È evidente che l’alimentazione ha un elevato valore simbolico e rappresenta più di ogni altra cosa la cura e l’assistenza. Fornire l’apporto nutrizionale risponde ad esigenze affettive e morali; talora lenisce i sensi di colpa e non è facile razionalizzare la cosa con evidenze scientifiche, quindi è necessaria una comunicazione efficace che richiede professionalità e partecipazione, oltre che tempo (un tempo forse maggiore di quello necessario per confezionare una PEG).
È, inoltre, imprescindibile una posizione univoca verso i familiari da parte di tutte le figure mediche che sono interessate alla gestione del paziente. Ciò che si deve dare è un ascolto partecipato che contempli la presa in carico della rabbia e della frustrazione derivanti da questa ulteriore deprivazione: l’accudimento di un bambino prima e di un adulto poi con PCI costano tanta fatica fisica, ma soprattutto emotiva.
Il terapeuta deve stare nella diffidenza e nella negazione iniziale, permettendo al caregiver di esprimerla con tutte le connotazioni emotive del momento, ma dovrà anche essere attento a cogliere quelle sfumature positive che cominceranno a comparire quando si vedranno i primi risultati positivi in termini di crescita ponderale e di miglioramento degli indici nutrizionali. Questo, infatti, rappresenta un altro difficile passaggio, perché c’è il rischio che la madre possa sentirsi ulteriormente inadatta nel vedere che il bambino migliora attraverso un accudimento che prevede l’utilizzo di una sonda.
Il terapeuta allora deve essere in grado di rinforzare l’aspetto del miglioramento clinico, mostrando il fatto che attraverso di esso, il bambino migliorerà anche il suo stato di benessere generale e sarà più disposto ad instaurare nuove esperienze affettive con la madre senza che queste siano necessariamente investite sul nutrire.
Si deve essere capaci di condurre il focus del lavoro sul fatto che un bambino speciale necessita di un accudimento particolare e si devono veicolare i sentimenti di inadeguatezza verso un sentire diverso, una normalità che è propria di quella famiglia e non deve essere messa a confronto se non con gruppi di genitori affini e che condividono le stesse esperienze.
Questo ci porta al terzo punto ovvero alla proposta di partecipare a gruppi di ascolto e condivisione tra pari intesi come “gruppi di consapevolezza e sostegno”:
- i soggetti che vi partecipano possono essere eterogenei o omogenei per fascia d’età e/o problematica espressa, ma l’elemento comune è che al loro interno vi è la circolarità del gruppo;
- la partecipazione dei membri e del conduttore consentono ai singoli di rendersi maggiormente consapevoli rispetto a specifiche situazioni che creano conflitto, disagio, stress o sofferenza;
- un’accurata conoscenza del proprio modo di sentire, pensare e comportarsi, costituisce il primo passo per il cambiamento ed il raggiungimento del proprio benessere.
Le persone nascono, vivono, crescono e sviluppano le loro esperienze interpersonali attraverso i gruppi: famiglia, scuola, pari, lavoro… Nell’incontro con l’altro si creano nuovi significati, si vivono stati d’animo e si struttura la personalità. E questo è vero sempre, quale che sia il livello cognitivo o culturale delle persone, mentre ciò che cambia sarà la capacità di metabolizzare l’accaduto e l’adattamento che si metterà in campo, perché le persone meno attrezzate andranno più facilmente incontro a sofferenze psichiche di difficile gestione, se lasciate al singolo e non significate.
È da molti consolidata l’idea che le caratteristiche del gruppo favoriscano lo sviluppo di relazioni, la nascita di legami identificativi, la creazione di una cultura comune e potenti meccanismi trasformativi, perché il gruppo non è la somma delle parti ma rappresenta un luogo fisico e mentale in cui ogni partecipante può:
- esprimere e condividere i suoi vissuti, gli stati d’animo e le emozioni
- riflettere, pensare ed elaborare nuove possibilità, opinioni e convinzioni
- apprendere modalità alternative e più funzionali per il benessere individuale e collettivo
Un ultimo breve accenno a ciò che accade quando la situazione del bambino, dopo alcuni mesi di utilizzo della PEG, in alcuni casi, permette la reintroduzione dell’alimentazione per os, se non in modo esclusivo, almeno per alcuni pasti, con quella che si chiama alimentazione mista. Spesso si assiste ad un sentimento di paura, soprattutto quando il processo di accettazione è stato lungo e sofferto, perché viene vissuto come un ripresentarsi di una ferita emotiva che, guarita per seconda intenzione, non si è disposti a riaprire.
In questi casi si deve mostrare che l’affidarsi a quanto proposto dai clinici, ha avuto un beneficio così importante, da poter riproporre, almeno in parte, anche l’atto fisico del nutrire e recuperare parte di quei significati che all’inizio sono stati veicolati da un altro agire. Si deve far sentire al caregiver quanto sia stato capace di superare le sue difficoltà iniziali e come questo processo evolutivo, seppur doloroso, abbia in realtà portato a un risultato così positivo da passare all’alimentazione mista. Va evidenziato il fatto che quell’esito positivo si è potuto raggiungere proprio in seguito all’affidamento che si è fatto nei confronti dell’equipe clinica e che se questo è successo una volta, vi è tutta la legittima attesa che possa risuccedere.
Possiamo affermare che l’alimentazione con PEG è un atto medico che garantisce la sopravvivenza del fisico, ma implica tutta una serie di significati simbolici che richiedono un lungo processo di accettazione, per ottenere il quale è necessario un ascolto partecipato sia prima del suo posizionamento, sia dopo:
- la famiglia deve essere tenuta in carico perché non venga mai meno, non tanto la cura, ma il prendersi cura.